#manifesto di femministe nove

Qui sotto la versione integrale del nostro manifesto, pubblicato nell’ultimo numero della rivista dwf n. 2 (98) 2013.
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#autodeterminazione

Scriviamo per responsabilità verso le nostre vite e desiderio di cambiarle.
Scriviamo per ritrovare il senso e il tempo di una autodeterminazione individuale e collettiva.

Siamo donne sull’orlo di una crisi di nervi e la crisi è la narrazione dominante del tempo che viviamo: un nesso ci sarà pure. Vogliamo nominarlo.
Viviamo il tempo della crisi e della sconfitta. Un tempo di crisi economica e politica. Vogliamo immaginare e costruire un altro tempo.

Pensiamo sia necessario costruire una connessione politica tra teorie della trasformazione e pratiche di liberazione, tra pensiero ed esperienza.

Siamo femministe nove. Non siamo ereditiere, siamo precarie.

Non confondiamo lo sforzo immenso che implica ancora la liberazione individuale e collettiva con la libertà. Non riusciremmo oggi a pensare la libertà senza il femminismo. Allo stesso tempo non possiamo pensare la libertà femminista se non come una libertà in situazione e in relazione, radicata nella materialità dei corpi e delle condizioni: come nesso tra libertà e liberazione. Il femminismo non è un’identità: possiamo divenire femministe solo nelle metamorfosi che produciamo, in noi, nelle relazioni, nel mondo. La radicalità non può essere solo il connotato di una enunciazione senza pratiche.

Proprio perché pensiamo il femminismo come la nostra rivoluzione possibile, non possiamo consegnarlo al già detto e al già narrato. Il femminismo è un divenire, non un dover essere. L’autodeterminazione è una continua lotta.

Rifiutiamo un femminismo senza corpo.
La nostra autodeterminazione non ha un contenuto.

Riconosciamo il valore fondativo delle nostre genealogie nel pensiero e nelle pratiche femministe. E non vogliamo vivere il confronto fra generazioni femministe né nell’asimmetria di potere e di autorità né nell’invidia dell’epica di una stagione aurorale. Vogliamo partire dalle nostre vite, dal presente che ci accomuna, per costruire pratiche di potenziamento reciproco nel desiderio condiviso di cambiamento, di liberazione dall’oppressione materiale e simbolica. Autodeterminazione e libertà non coincidono ancora.

Siamo femministe storiche: il tempo presente ci fa orrore. Vogliamo agire per cambiarlo.
Ognuna è responsabile della propria indifferenza.

Siamo partite da noi. Ci siamo narrate. È stata ed è già politica. Il femminismo è stata la rivoluzione più autentica, è oggi quella più necessaria: quella che ci permette di nominarci come soggetti, di nominare lo scarto tra i nostri desideri e la realtà. Ma il vuoto di una libertà immaginata è stato occupato dal pieno di un capitalismo totalitario, che fagocita capacità di cura e relazione. L’ansia di libertà è diventata ansia da prestazione.

Siamo nate dopo. Dopo la nominazione di sé come soggetti, dopo la decostruzione dell’universale donna. Dopo l’emancipazione, l’autocoscienza, la liberazione, la differenza. Siamo già state donne e lesbiche, nelle frontiere e ai margini, cyborg e queer, irrappresentabili e rappresentate. Ma non ci sentiamo affatto post. Sentiamo il femminismo come una metamorfosi che ci attraversa, un cambiamento che pensiamo e agiamo attraverso il corpo.

Non siamo staffette, siamo partigiane.
Siamo singolarità in relazione: vogliamo costruire alleanze, potenziare i diversi percorsi di liberazione.
Pensiamo l’autodeterminazione come parola satura da svuotare e come parola vuota da riempire.

Ridecliniamo l’autodeterminazione oggi in un contesto di decostruzione di naturale e artificiale e, allo stesso tempo, di colonizzazione sempre più pervasiva del biopotere sui nostri corpi.

Ci avevano avvertite che l’emancipazione poteva assumere il volto di un destino. E abbiamo resistito affinché le nostre vite e i nostri corpi non fossero portati al mercato di un lavoro femminilizzato, che ancora una volta ci “assegna un posto” anche quando un posto non ce lo dà, che spesso ci sussume senza assumerci.

Abbiamo riconosciuto e nominato questa trappola. Ma ancora non basta, se questo è il mondo che viviamo. Non basta se inseguiamo la promessa del lavoro, perché identità e senso possiamo trovarli solo al prezzo di competizione e (auto)sfruttamento; non basta se il lavoro lo togliamo dal centro, perché anche il tentativo di investire su tutto il resto è condizionato dalla precarietà. E anche mentre ci diciamo che il nesso lavoro/identità è sciolto, un pezzo del senso di noi e del nostro tempo è sempre impigliato lì.

In tutti questi casi, tra lavoro a tempo determinato e a tempo indeterminato, è scomparso il lavoro come tempo autodeterminato.
Tra il rifiuto del lavoro (così com’è) e la volontà di trasformarlo c’è un legame profondo.

La precarietà è una condizione diffusa, non è una coscienza collettiva di una condizione. È uno stato d’animo diffuso come percezione solitaria della propria miseria individuale. È raccontata come emergenza o come escrescenza sociale da riassorbire nelle retoriche di quelle stesse politiche che la producono e la prevedono strutturalmente.

La precarietà non è un’identità: è la situazione in cui viviamo e, dunque, quella in cui possiamo costruire conflitti e pratiche di libertà. Una situazione che non vogliamo rimuovere, perché vogliamo cambiarla.

Stentiamo a rendere collettiva la consapevolezza della possibilità di una trasformazione per tutte e tutti. Le soggettivazioni politiche precarie sono quanto mai difficili, nella frammentazione e nella competizione in cui siamo immerse.

È difficile divenire collettivamente soggetti di conflitto quando il corpo politico è consunto; quando i corpi sono indotti ad una disponibilità permanente al lavoro, disimparano a dire no. Colpito dalla crisi, cancellato dalla bidimensionalità della politica televisiva, il corpo è rimosso anche quando è esposto per protesta, su una gru o in un gesto estremo. La realtà del corpo non fa più attrito nel discorso separato della politica, che è sempre più linguaggio senza corpo.

È senza corpo la politica istituzionale, con i suoi richiami astratti alle riforme strutturali per l’uscita dalla crisi e con il sottofondo di un senso di colpa indotto dalla retorica del debito e tradotto nei termini di competitività, meritocrazia, flessibilità. Per uscire dalla crisi, per essere credibili sui mercati, dovremmo accettare che i nostri corpi siano annientati. Perché queste misure si traducono in abbassamento dei salari, disoccupazione, tagli al welfare, attacchi al sistema della contrattazione collettiva, precarietà.
Sono i nostri corpi a dover uscire dalla crisi.

Ci sentiamo parte di quella generazione politica che non vuole pagare il prezzo della crisi, ma sembra non avere potere per evitarlo. Che è nata con l’esperienza dei social forum e si è ritrovata a Genova 2001 affermando che “un altro mondo è possibile”, ma respira oggi l’aria di una pesantissima sconfitta. Pensiamo che le pratiche di costruzione del comune e di autogoverno contro la recinzione siano strade da percorrere. Ma perché queste pratiche diventino motore di trasformazione non possono contemplare nessun autocompiacimento comunitario, né la miseria di relazione fra corpi asessuati.

Sentiamo un deficit di pratiche e la responsabilità di porci collettivamente, da femministe, un problema di efficacia nel produrre spostamenti nel senso comune, cambiamenti nella vita materiale di donne e uomini che vivono in questo tempo di crisi.

Partiamo dalle pratiche allora. Dalla necessità di costruire luoghi di autogoverno e spazi liberati che vivano nella porosità col mondo circostante, nella tensione a una liberazione collettiva, individuale e sociale; pensiamo a degli spazi abitati da donne e uomini; al reddito come strumento di connessione e di demercificazione: un reddito di autodeterminazione. Pensiamo a un separatismo che non sia politica separata, pensiamo a come costruire percorsi di potenziamento fra identità non fisse e in divenire.

#corpi al lavoro/precarietà/non-lavoro

Facciamo tanti lavori, i più disparati, quando ci sono. Li accomunano contratti precari, quando ci sono, che rendono precarie anche le nostre vite. Reddito, casa, malattia, maternità, ammortizzatori sociali, servizi, per noi assumono la forma di privilegi piuttosto che di diritti.

Viviamo situazioni lavorative frammentate, dislocate in spazi diversi e dilatate nei tempi. I tempi di lavoro si confondono con i tempi di vita ponendoci tutte in disponibilità permanente. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione fanno sì che si possa lavorare a casa, in autobus, in treno, in qualunque posto e in qualsiasi momento. Questa nuova potenzialità è stata però troppo spesso ridotta a uno strumentale isolamento delle singole lavoratrici, non solo rispetto allo sguardo istituzionale¬ – che non vuole e non riesce a vederle – ma anche rispetto alla negoziazione tra le parti, una negoziazione che salta oggi la mediazione (rappresentata in passato dalle organizzazioni sindacali) e che si gioca tutta sulle singole e sui singoli, riducendo drasticamente la possibilità di resistere al ricatto di lavori gratuiti o sottopagati.

Superare l’individualizzazione che caratterizza tanti dei nostri lavori è già politica. Creare nessi e alleanze tra generazioni e vite in crisi smonta la narrazione che vede “garantiti” e “non garantiti” in guerra. Perché è una guerra a perdere.
Il nostro è stato un percorso di acquisizione progressiva di autocoscienza, a partire dalla condizione di lavoro e vita che accomuna ormai diverse generazioni. L’autonarrazione è stata per anni la strategia per costruire collettività a fronte dell’impossibilità di accedere alle forme classiche di conflitto e di difesa dei nostri diritti. Autonarrazione precaria e autocoscienza si sono intrecciate.
Abbiamo tolto il lavoro dal centro, un’operazione personale e politica che mirava a rivendicare un welfare che parlasse di diritti universali sganciati dal lavoro.

Anteporre i nostri desideri al lavoro per molte di noi ha significato potenziare “tutto il resto”, cercare spazi di autodeterminazione altrove, in primis nella politica. Non è stata una mossa limpida. Non è cambiato l’essere soggette a tempi altri, allo sfruttamento, alle energie catturate in quella che rimane l’attività preminente della giornata. Svuotato di importanza, il lavoro è rimasto privo di parole, senza che per questo smettessimo di portare al lavoro un di più – soprattutto in termini di cura delle relazioni – che raramente va a nostro vantaggio e ancora meno si trasforma in una forza conflittuale.

Storicamente la rappresentazione delle donne non si è costruita sulla partecipazione al lavoro. D’altra parte, quando le donne sono entrate in massa nel mercato del lavoro, hanno cercato anche realizzazione, senso, espressione di sé, conferma del proprio talento, relazione col mondo, accesso alla sfera pubblica, superamento della deperibilità del lavoro domestico. È così anche per noi. Ma per evitare di rimanere imbrigliate nella competizione e nell’individualismo, non abbiamo tradotto il nostro status nel lavoro. E, allo stesso tempo, per quanto il lavoro non sia il luogo in cui si costruisce la nostra identità, rimane uno dei luoghi in cui cerchiamo riconoscimento.
Cos’è che ripaga il nostro lavoro? Non è solo il denaro, c’è qualcosa in più. C’è una parte di senso, senso di noi e senso del mondo, c’è la relazione e il piacere delle relazioni, c’è il desiderio di “darsi” e “dare” alla società, c’è il riconoscimento di se stesse in uno spazio da condividere con altre e altri.
Questo di più di relazione che portiamo al lavoro è una fedeltà a noi stesse, alla nostra autenticità. Ma c’è il rischio di scambiare il riconoscimento con il compenso e i diritti. È il nostro modo di lavorare e prenderci cura dei luoghi, degli oggetti e delle relazioni, del lavoro. Ma tutto questo diventa anche l’ammortizzatore che permette al sistema neoliberista di perpetuarsi.
Possiamo lavorare diversamente? Non c’è una risposta unica per tutte, ma c’è una questione: si può “rendere politico” questo qualcosa in più che diversamente portiamo al lavoro?
Oggi che abbiamo preso coscienza del fatto che portare le competenze, i saperi, le relazioni al mercato del lavoro si è tradotto nello sfruttamento delle vite intere, dei corpi, della sessualità di donne e uomini, la nostra è una posizione autorevole per ri-pensare le coordinate della società intera.

#reddito/esistenza/autodeterminazione/femminismo

L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, con un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti in Europa. L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non prevedere un reddito minimo garantito.
Sosteniamo e abbiamo sostenuto l’ipotesi di un reddito minimo garantito come misura immediatamente praticabile di contrasto al ricatto della precarietà e di lotta alla povertà. Ipotesi che non abbiamo mai posto in contrasto, bensì in connessione, con la difesa del diritto al lavoro e dei diritti del lavoro e con la necessità di una redistribuzione delle ricchezze.
La crisi che viviamo ha di fatto accresciuto le ricchezze dei già ricchi e consumato le possibilità economiche delle classi medie e basse. Questa dinamica non accenna a esaurirsi, esacerbando tensioni, razzismi e violenze sociali. Non possiamo più tollerare che ogni misura sia tesa a mantenere questa tendenza. Proprio perché siamo in questo mondo, e viviamo le contraddizioni di questo squilibrio, pensiamo come urgenti e necessarie misure di redistribuzione delle ricchezze. È in questo orizzonte che vogliamo si inserisca il reddito minimo garantito.
Allo stesso tempo, sentiamo la necessità di immaginare un reddito minimo garantito assieme alla costruzione di un nuovo welfare che sganci i diritti dal lavoro, di un passaggio da una cultura contrattualistica a un’economia e un welfare di condivisione.
Non facciamo del reddito una rivendicazione neutra per un cittadino neutro. Pensiamo al reddito come a un diritto individuale non scisso, ma connesso a una diversa idea di lavoro, di produzione e di società: pensiamo ad un reddito di autodeterminazione.
Reclamiamo reddito anche come garanzia del diritto all’esistenza, come possibilità per liberare tempo, per costruire, fuori dalla logica della prestazione, saperi, relazioni, politica.
Sappiamo che se i diritti sono collegati esclusivamente al lavoro, c’è qualcuno che può dirti che il tuo non è lavoro, o è lavoro “di serie b”; sappiamo che se lasciamo che sia esclusivamente il reddito sotto forma di denaro a garantire il tempo fertile – quello della cura, della condivisione, dei saperi, della politica – cadiamo ancora una volta nelle regole capitalistiche o tecnocratiche. Queste attività devono essere sottratte alla dimensione della moneta, perché caratterizzano il tempo come fertile e ricreano spazi di libertà. È necessario sottrarre al denaro l’esclusiva possibilità di accesso alla comunità.
Il reddito senza welfare ci porrebbe in una condizione di isolamento. Reclamiamo quindi un altro welfare.
Il reddito è uno strumento, una riforma da cui muovere per un orizzonte più ampio.
Il reddito può essere un terreno politico e sociale di alleanza tra soggetti diversi, per costruire un percorso politico-culturale che vada verso l’invenzione di un nuovo paradigma di cittadinanza, attraverso pratiche di partecipazione e autogoverno che ridefiniscano il significato della ricchezza: cultura, saperi, corpo, acqua, territorio, scuola, sanità, denaro.
Reclamiamo reddito in quanto precarie. Reclamiamo reddito in quanto femministe.

#corpi/desideri

I nostri corpi parlano sempre, anche quando non li ascoltiamo. Parlano in ogni momento del nostro fare esperienza del mondo in cui viviamo e delle relazioni che intrecciamo e che trovano nel nostro stesso corpo la cassa di risonanza dei loro effetti. Pensiamo attraverso il corpo.
Oggi il nostro corpo di donne è sezionato da una sorta di autopsia sociale, culturale, storica, politica, mediatica. È un corpo fatto a pezzi il nostro, che non si ritrova mai intero nelle differenti sue dimensioni di vita e perciò resta sempre inadeguato, incompleto, in difetto. Il nostro corpo non va mai bene perché ridotto a una parte di corpo che interagisce con qualcos’altro, che serve sempre a qualcosa o a qualcuno, che è ingabbiato nella veste di madre, figlia, militante, lato A, lato B, taglia 42; che è giudicato facile, dignitoso, bello, brutto, maschile, femminile, perbene, permale. Persa ogni interezza, siamo pezzi di donne e donne in pezzi che devono confrontarsi con un mondo che ci fa sentire sempre inadeguate e fuori posto.
È da questo fuori posto che ci muoviamo, la nostra forza è riconoscere il nostro desiderio. Passiamo troppo tempo a decostruire modelli e pratiche per tentare di restare in ascolto dei nostri desideri autentici. Decostruzione e ascolto sono passaggi necessari. Ma è quando li portiamo nelle relazioni e nella pratica che ci sentiamo più libere. Ancora più difficile è seguire il corpo e solo successivamente andargli incontro con il pensiero e la parola. C’è un prezzo da pagare per questo: negoziazione, limiti, sofferenza. Ma è questo, e non altri, il prezzo che siamo disposte a pagare e per cui siamo disposte a lottare.
I tempi di una performatività indotta che oggi agiscono in maniera più acuta sul corpo delle donne, ci portano troppo spesso a rimuovere il nostro corpo, a viverlo appunto come sintomo da tacitare o come oggetto da modellare. Il corpo rimosso sembra essere il filo conduttore delle nostre vite: rimosso nel lavoro come ansia da prestazione quanto nella politica come ansia di trasformazione. Rimosso anche da noi. Il nostro corpo è muto, ridotto a mero sintomo. Nevrosi, disturbi alimentari, perfezionismo fobico, psicofarmaci: è questo il prezzo che paghiamo a tutti i super-ego che abbiamo introiettato nella società della prestazione.
Il femminismo stesso, se non viene attraversato da una veglia costante e lucida, rischia di sopravvivere grazie a una rimozione del corpo; rischia cioè di parlare del corpo delle altre, rendendolo non più soggetto politico, ma oggetto di discorso politico: il corpo delle migranti, il corpo delle vittime di femminicidio, il corpo delle prostitute.
Non vogliamo più essere complici di questa rimozione.
Abbiamo un disperato e vitale bisogno di partire da qui, dal nostro corpo, per farne davvero il cuore della politica, per fare del femminismo una parola aderente alle nostre vite.
La sessualità non è mai un terreno pacificato. Anche i nostri corpi sono impacchettati in identità fisse, che costringono o condizionano i desideri in forme di vita precostituite e codificate da un’etica patriarcale e dalla sua estetica sclerotizzata.
Consideriamo l’erotismo qualcosa di molto più ampio rispetto all’atto sessuale. L’erotismo dei nostri corpi vuole scorrere in libertà. Riapriamo lo spazio e l’immaginazione a un erotismo espanso che tocca tutti i luoghi che il nostro corpo tocca. Questa è la condizione per essere soggetti capaci di costruire un mondo a misura dei corpi. Di un corpo complesso ma integro in un mondo di relazioni.
Erotismo come sessualità espansa, che è stato invece finora costretto nelle logiche impoverenti di tutte le binarietà possibili (uomo/donna, etero/omo) dalla cappa attiva e soffocante dell’etero-normatività. Rispondiamo all’erotismo impoverito con l’erotismo espanso come autentica possibilità per il nostro corpo di esprimersi nell’unità complessa della sua immaginazione: con una nuova narrazione dell’erotico che tenga assieme un doppio piano, una dimensione orizzontale di esposizione all’imprevisto, ma anche una verticale di centratura sul proprio desiderio.
Vogliamo riattivare le unicità dei corpi, la potenzialità di ciascuna e ciascuno di esistere ed esprimersi.
Non vogliamo scoprire la nostra sessualità per negazione rispetto a quella data, costruita su un impianto maschile ed etero-normativo, che fissa i ruoli di attivo e passivo, il limite tra dare e provare piacere. E non vogliamo pensare la nostra sessualità per differenza rispetto a ciò che scartiamo, per sottrazione rispetto a ciò che non ci piace, ma per potenziamento del nostro corpo e del nostro desiderio.
Siamo fluide. Il nostro desiderio è fluido, perché è radicato nei nostri corpi.

#corpi/violenza
Siamo in un sistema di violenza strutturale contro le donne: il corpo delle donne viene usato e abusato come terreno politico.
La decisione altrui sui nostri corpi è esercizio di violenza politica sul piano materiale e simbolico con aggressioni, ingiurie, stupri e femminicidi; con norme che ne violano o ne limitano la libertà; con l’imposizione di ruoli, immagini e immaginari.
Viviamo in una società che si struttura su politiche neo-liberiste, le cui istituzioni sono attraversate da dinamiche sessiste che intensificano le discriminazioni. L’austerity è un violento attacco alle nostre possibilità di autodeterminazione.
La violenza degli uomini contro le donne è un fatto ancora fondante, in ogni tempo e in ogni società. La conquista della terra passa per lo stupro – non solo fisico, ma anche morale e simbolico – delle donne. È stato sempre ed è ancora così.
L’uscita delle donne nel mondo, attraverso il lavoro e l’emancipazione, ha determinato un mutamento di segno di quella violenza, che da espressione socialmente accettata di un dominio maschile diventa reazione di fronte a corpi che si ribellano o sfuggono all’imposizione di un ruolo prestabilito. Termini e forma della violenza sono mutati.
Segno del potere dell’ordine simbolico maschile, la violenza contro le donne oggi è anche il sintomo del collasso di quello stesso ordine. Fragilità e vuoto di senso del maschile, mancata rielaborazione e capacità di porsi in relazione e dialogo con l’autonomia e la libertà che le donne hanno conquistato, sono i tratti distintivi di una nuova vicenda del patriarcato, rappresentata sempre più spesso in termini di “crisi” o “post-patriarcato”. Nel suo mutamento profondo, il “nuovo patriarcato” continua ad essere agito da patriarcalismi della prima ora e da vecchi modelli di relazioni tra i sessi, contaminati da nuove efferate e reiterate forme di violenza contro le donne. Un intreccio tra persistenze e trasformazioni che non è solo misura delle contraddizioni e dei cambiamenti della nostra epoca indecifrabile e incerta, ma che lascia intravedere il tentativo da parte maschile di cancellare della soggettività femminile non solo, come è avvenuto storicamente, l’uguaglianza e la parità, ma anche la sua differenza. È come se nell’atto violento gli uomini traducessero l’incapacità di riconoscere le donne come soggetto altro, come altro da sé. È come se gli uomini si armassero di violenza e misoginia per sopravvivere alla loro stessa crisi e all’irreversibile perdita di quella autorità e quel controllo roccaforti della loro identità; quasi un tentativo estremo di scongiurare la paura della perdita e del lutto.
La dissolvenza di quelle figure maschili su cui è stata costruita un’intera storia, materialmente non reiterabili, non corrisponde a un mutamento del maschile nell’immaginario. L’immaginario maschile non è e non può essere quello di cinquanta anni fa, ma le immagini che pesano sugli uomini sono ancora le stesse. Ciò produce frustrazione e senso di impotenza che, in assenza di una reale dimensione di dialogo e confronto tra uomini, di una reale messa in discussione di una maschilità monolitica, portano spesso a giocare una partita individuale, senza possibilità di scambio e mediazione.
“La crisi del maschile” si intreccia oggi con la crisi economica, producendo uno spaesamento in chi vede saltare il ruolo di capofamiglia tradizionalmente attribuitogli, spaesamento che spesso non trova modi di elaborazione – anche a causa di un vuoto, di un deficit di relazione tra uomini – e sfocia nella violenza come mezzo immediato di relazione che, in questo contesto, irrompe prepotentemente.
Ogni episodio di violenza sulle donne deve essere letto nel suo aspetto sociale, oltre che culturale, sullo stesso piano, ma con gradazioni di intensità diversa, rispetto ad altre forme di molestie, discriminazioni, sguardi, parole, apprezzamenti. Non può essere sminuito a espressione di una patologia temporanea (il famigerato raptus) o permanente. Ogni episodio agisce e rafforza una struttura culturale e sociale fondata su rapporti di potere sbilanciati. L’obiettivo comune è cristallizzare una condizione di inferiorità e subordinazione nei rapporti privati e pubblici.
La violenza di cui siamo bersaglio trascende i rapporti individuali, perché alimentata dalle rappresentazioni socio-culturali e dagli stereotipi di genere prodotti e legittimati dal discorso pubblico. Sentiamo come violenza il martellamento mediatico che mira a denigrare le nostre identità, mercificando i nostri corpi, e a farci sentire fisicamente inadeguate creando un mito di bellezza funzionale a mantenere il dominio patriarcale e il controllo sociale.
Viviamo sui nostri corpi la violenza morale e istituzionale della mancanza di giustizia, di servizi e di istituzioni che garantiscano i nostri diritti. Le istituzioni militari o di cosiddetta difesa pubblica più volte hanno dimostrato la loro incapacità – e spesso complicità – di fronte alla violenza, come dimostrano gli stupri perpetrati da poliziotti e militari nelle caserme.
Non vogliamo leggi sulla violenza che agiscono in nome della nostra libertà violando il principio stesso di autodeterminazione femminile. La cosiddetta legge contro il femminicidio varata nel 2013, l’ennesima strumentalizzazione dei nostri corpi in chiave securitaria, ci riduce ancora una volta ad un’emergenza sociale, con l’effetto di riprodurre un’ulteriore violenza normativa che definisce la nostra soggettività in base a ruoli e funzioni tradizionali.
Non vogliamo leggi sul corpo delle donne. Vogliamo un sistema di welfare e di diritti che garantisca la possibilità di scegliere e autodeterminarsi.
Siamo per la riappropriazione e ri-creazione di un immaginario della forza femminile. Violenta è la rappresentazione che esclude le donne dal poter agire il proprio dissenso, la propria forza, negando inoltre la possibilità (eventuale ed estrema) dell’agire violento. Violenta è l’immagine che ci dipinge come perenni vittime, incapaci di gestire un ricorso alla nostra forza. Violento è il discorso che tiene le donne fuori dalle piazze per paura di “ricevere” violenza. Violento è il discorso che ci vuole buone e non violente per essenza, incapaci di farci carico della nostra forza interiore e fisica.
Violento è chi non crede che possiamo essere anche cattive.

#corpi/medicalizzazione/tecnopossibilità

La medicalizzazione ha a che fare con l’espropriazione dei nostri corpi che hanno perso la capacità di comprendere le proprie esperienze, sovradeterminati da una forma di sapere medico che si converte in autorità.

La medicalizzazione diventa così una forma di decorporizzazione che colpisce i nostri corpi, che, attraversati da sentenze e misure di controllo, non ci appartengono più; una forma di disciplinamento dei nostri corpi, che diventano sia oggetto che strumento di potere. Essa rappresenta un fenomeno disincarnato che spesso nasconde dietro le parole “prevenzione”, “salute”, “sicurezza” una precisa volontà di controllo.

I corpi delle donne da sempre sono oggetto di controllo. La riproduzione è stata il fulcro della divisione dei ruoli e della imposizione di potere. Dalla gravidanza all’aborto, il controllo si è tradotto in una totale espropriazione di quel sapere personale e collettivo che oggi più che mai si è fatto muto, annullato e sostituito dalle parole di una scienza che si pretende neutra.

Queste parole hanno ridotto l’esperienza personale dei corpi in un’immagine unica e fissa, costruita su un’unica idea di corpo e di salute. Viviamo in un mondo saturo di informazione, prevenzione, diete, esami, analisi. Il corpo perde la sua capacità di autocontrollo, di dire della sua salute e della sua malattia, non si fida più dei suoi segnali.

La norma e la normalità, la creazione di identità predeterminate e interiorizzate, a cui siamo indotte ad aderire, modificano il nostro corpo, anestetizzandolo.

L’espropriazione del sapere del corpo diventa delega, talmente interiorizzata che si fatica a riconoscerla. La consapevolezza di questa condizione spesso non passa per la ragione. È il nostro corpo, infastidito e insofferente, che vuole liberarsi dalla violenza che la medicina spesso gli impone anche nel suo volto più protettivo.

In nome della riproduzione della specie, la maternità è da sempre oggetto di controllo su comportamenti, stili di vita, scelte. La maternità è il paradigma della totale delega ad altri, alla competenza e all’autorità medica, alla coppia e alla famiglia. Il valore sociale della gravidanza si traduce nella richiesta di un corpo perfetto e sano, tutelato dalle malattie, dalla stanchezza, non in quanto corpo in sé ma in quanto contenitore di vita. Il corpo delle donne è, per destino biologico, un corpo da tenere in salute e da tutelare in quanto fertile.

Un corpo tutelato è un corpo posto sotto tutela. Ribellarsi a questa condizione è una forma di libertà.

La nostra autodeterminazione passa per un’emancipazione dal ruolo biologico imposto. Se essa ha a che fare con la possibilità di una maternità liberamente scelta, passa anche per il diritto alla sua negazione.

Anche l’aborto è soggetto al paradigma della delega, del vaglio o del veto medico. L’iter previsto dalla legge 194 contempla una serie di restrizioni e limitazioni alla volontà di interrompere la gravidanza: l’obiezione di coscienza di fatto impedisce l’autodeterminazione delle donne nel momento in cui ostacola l’aborto o la contraccezione di emergenza.

Lo sviluppo delle tecnologie non ha avuto solo un impatto sulla salute delle donne e del feto in termini di possibilità, prevenzione e cura, ma anche conseguenze sul piano della percezione che si ha di quest’ultimo, della vita, del concepimento. Rivendichiamo il fatto che il feto al centro del dibattito oggi non è un frutto della natura, della biologia, bensì una costruzione ideologica della società moderna.

L’estensione e la diffusione della contraccezione ci parlano assieme dei nostri corpi, che chiedono altrettanta estensione e diffusione dei propri desideri, un allargamento responsabile e autodeterminato durante l’incontro sessuale con altri corpi, e di un rischio. Sappiamo che la tecnologia non serve ma asservisce quando non tende al potenziamento dell’autocoscienza rispetto al proprio corpo e alle proprie scelte di riproduzione o di non riproduzione, ma si palesa come strumento di formazione e controllo di un immaginario del corpo come mero oggetto di analisi, contabilità, classificazione, specificazione.

Svincolare la riproduzione da ogni forma di biologismo è oggi un nodo fondamentale da cui passa la liberazione per molte: libera quelle donne che, vivendo nell’immaginario saturo di desiderio di maternità, non riconoscono serenamente un desiderio autonomo; realizza il desiderio di procreazione di chi non è nella coppia eterosessuale.

Nel mondo della performatività indotta, la volontà di estremo controllo su quel che ci accade si accompagna con la tensione all’adeguamento per colmare il senso di inadeguatezza personale rispetto alle richieste collettive. Denunciamo la forma sociale di questo malessere.

Molto spesso la vera patologia è quel che ci viene proposto come modalità di vita condivisa. Questa società nomina le persone come patologiche e nel farlo le abbandona a un destino segnato dall’isolamento, dalla mancanza di supporto: ancora una volta la società marginalizza e tenta di espellere ciò che non riesce a contenere con la forza della persuasione.

Spesso la medicina induce un’individualizzazione di questi aspetti, che vengono trasformati in sintomi di una patologia individuale. Troppo spesso siamo indotte a dimenticare che il malessere personale è prodotto da una società che induce all’eccesso di controllo, a una performatività totale che si traduce in ansia da prestazione sociale. Spesso trasformiamo il disagio e il rifiuto in sintomo, in senso di colpa e di inadeguatezza da colmare a tutti i costi. L’aumento del consumo di psicofarmaci soprattutto tra le donne, la diffusione dei disturbi alimentari ci parlano della insostenibilità per i nostri corpi di questa performatività e di questo controllo.

Il legame tra controllo del comportamento e immagine di un corpo normativamente concepito si esplicita anche sulle “identità sessuali o di genere” che deviano dall’eterosessualità dominante, come dimostrano il trattamento dei corpi dei bambini intersessuali o la patologizzazione della transessualità nel manuale diagnostico dei disturbi mentali. La disforia di genere è considerata una malattia mentale. Rifiutiamo un uso strumentale dell’invenzione della malattia mentale applicata alla disforia di genere. Riteniamo che l’oltrepassare le etichette escludenti abbia una valenza sovversiva ed estensiva per tutte e tutti, e possa indurre un mutamento radicale anche della concezione di genere e di sesso, oltre le categorie stereotipate in cui sono rinchiusi. Vogliamo la de-patologizzazione della transessualità e assieme una assistenza socio-sanitaria che garantisca la possibilità di accedere a percorsi M to F ed F to M.

I progressi di scienza e medicina hanno portato enormi miglioramenti nella vita degli esseri umani in generale e delle donne in particolare. Sappiamo che ci muoviamo in un orizzonte di possibilità, ma non possiamo tacere delle trappole disseminate in questo orizzonte. A ogni possibilità corrisponde un potenziale pericolo, perché dove prendono corpo una libertà di movimento e un’emancipazione dal dolore, si riconferma allo stesso tempo che il corpo delle donne è un campo di battaglia, economico e politico. Questa consapevolezza non ci metterà mai però nella condizione di rinunciare alle possibilità che si sono dischiuse e si dischiudono con la medicina. Pensiamo alla possibilità di abortire in sicurezza e di ricorrere alla contraccezione d’emergenza come espressioni fondamentali della nostra possibilità di scegliere del nostro corpo e dunque della nostra autodeterminazione.

Per questo crediamo sia necessario operare una riappropriazione delle tecnopossibilità.

Rifiutiamo la dicotomia naturale/artificiale.
I nostri corpi hanno diritto di appropriarsi di tutto ciò che è oggi materialmente possibile.

Se la ricerca ha ampliato il fronte del possibile, noi ampliamo il fronte delle possibilità della nostra autodeterminazione. Sta alla libertà di ciascuna coniugare responsabilità e desiderio. Proprio perché rifiutiamo la distinzione tra naturale e artificiale, pensiamo che le biotecnologie possano essere strumenti di libertà e manteniamo attiva la critica al loro uso come strumenti di controllo.

La fecondazione assistita ha sparigliato il concetto di maternità concepito esclusivamente come eterosessuale, che è dunque eterosessista se non viene proiettato al di fuori dei limiti biologici. Sentiamo ancora viva la sconfitta di quella battaglia referendaria, in cui il discorso scientista e quello confessionale hanno occultato anni di parola femminista. Continuiamo a batterci per l’abrogazione della legge 40, contro un’etica confessionale di stato che impedisce la fecondazione eterologa e la diagnosi preimpianto.

Rintracciamo oggi più che mai il bisogno di segnare il confine tra l’esperienza personale concreta dei nostri corpi e gli stadi biologici di organizzazione che creano realtà fittizie costruite strumentalmente. I nostri corpi vogliono raggiungere l’irraggiungibile, sconfinare nelle disappartenenze, territorializzarsi nel loro immaginario, oltre e al di là di quello dominante.

I nostri corpi vivono nella contraddizione, e attraversandola, chiedono la messa in discussione di tutti i concetti ovvi: vogliamo andare oltre la concezione di famiglia tradizionale nucleare ed eterosessuale per parlare di una sfera allargata di relazioni d’intimità e cura. Una famiglia che si fondi non più sul legame biologico stabilito mediante un’istituzione che lo legalizza, ma sul desiderio delle singole donne e dei singoli uomini.

I nostri corpi vogliono coinvolgere e sconvolgere gli ordini simbolici per aprirsi ad un orizzonte di riappropriazione dello spazio a partire dalla loro concretezza, per impegnarsi, a partire dal loro radicamento nel mondo, nella produzione e nell’occupazione di nuove realtà.

#conflitti /politica/rivolta femminista

Siamo femministe, ci occupiamo del mondo, a partire da noi.

Sentiamo la necessità di rimettere a tema il nodo del conflitto politico. Di nominare lo scarto tra parole e pratiche, e i punti deboli nella gestione e nel superamento di conflitto tra donne, spesso solo occultati, ma non risolti, da una retorica della relazione.

Facciamo che nessuna parla a nome delle altre, del sesso e del potere che agisce sulle altre senza avere prima parlato di sé. Facciamo che nessuna parla di relazione se non è davvero disposta a mettersi in gioco.

Rimettiamo il desiderio al centro della politica. Il desiderio di cambiamento e insieme il desiderio di ritrovarci tutte intere nei luoghi del nostro agire politico. Un desiderio che incontra nella relazione con l’altra insieme un limite e un potenziamento.

Sentiamo la responsabilità di essere fondative, da femministe, di un conflitto che non rimuova le nostre pratiche e i nostri corpi; di costruire, connettere, segnare pratiche di rivolta e conflitto contro l’austerity, contro la precarietà, contro il debito, contro le persistenze e le trasformazioni del patriarcato, contro la sperequazione e l’ingiustizia sociale, contro ogni forma di razzismo e discriminazione, contro l’autoritarismo finanziario e la sottrazione di democrazia, contro la privatizzazione di saperi e beni comuni, contro la militarizzazione del territorio e la distruzione dell’ambiente.

Non vogliamo essere donne di fronte sempre agli stessi bivi: tra dentro e fuori, comunità e istituzioni, separatismo e rappresentanza, è già politica, ma non basta. Abbiamo sperimentato le insufficienze dell’auto-ghettizzazione comunitaria così come della rappresentanza, dei singoli gesti di rivolta così come dell’organizzazione, in partiti, sindacati, movimenti misti. Non siamo immuni dalla crisi della politica. Facciamo un passo avanti, per potenziarci reciprocamente.

Il nostro femminismo vuole essere un movimento reale. È incompatibile con lo stato di cose presente.

Nello svuotamento autoritario della rappresentanza, nella distruzione sociale di chi è “rappresentat*”, vediamo le due facce della crisi della politica che viviamo in Italia e in Europa. Ma sappiamo che le strade e le piazze d’Europa sono attraversate da generazioni che si ribellano, che reclamano presente e futuro.

La rivolta è quello che il femminismo, in questo secolo, ha da ripensare.

Il femminismo è stato definito la rivoluzione più lunga, di cui ci sentiamo parte attiva. Oggi viviamo il tempo della necessità di una rivolta. Vogliamo essere partecipi di una rivolta che metta al centro e non rimuova i nostri corpi sessuati. Indignarsi, lo sappiamo, non basta. Non vogliamo essere una avanguardia, ma ci sentiamo anteprima di un mondo in cui la precarietà diventa il non-orizzonte che accomuna le vite. Così muore la politica come dimensione collettiva.

Vogliamo essere anteprima di una politica diversa, di una rivolta femminista.

Siamo femministe nove:
angela ammirati, giorgia bordoni, federica castelli, alessandra chiricosta, ingrid colanicchia, sabrina di lella, teresa di martino, alessia dro, serena fiorletta, eleonora forenza, angela lamboglia, gaia leiss, viola lo moro, valeria mercandino, roberta paoletti, simona pianizzola, nicoletta stellino… to be continued …

 

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3 risposte a #manifesto di femministe nove

  1. citoyenflorelle ha detto:

    Sottoscrivo tutto e aggiungo che forse siamo storiche anche perché siamo proiettate nel futuro, in quello che vogliamo costruire perché noi una visione della società che vorremmo ce l’abbiamo e in vista di quella proponiamo la nostra azione sociale e politica.
    Siamo fluide, ma questo non significa senza identità politica, ma nel rispetto dell’identità autodeterminata e unica di ciascuna di noi (e del grandissimo valore che ogni diversità apporta).

  2. Cinzia ha detto:

    Interessante! Sono d’accordo sul fatto che uno dei modi in cui si è storicamente determinato l’assoggettamento delle donne sia legato alla costruzione del corpo femminile come corpo riproduttore. Secondo me, questa costruzione ha anche nascosto altri aspetti della corporeità; per es la malattia e/o la disabilità. Il fatto di ammalarsi, il motivo per cui ci si ammala, il modo in cui si risponde o si dovrebbe rispondere alla malattia sono socialmente determinati, orientati secondo il genere, ma anche la classe e la “razza” cui si appartiene. Ce lo ricordava Audre Lorde nel suo magistrale Cancer Journals, e qualche anno dopo Sharon Batt in “Patient No more”. Nessuno dei due, purtroppo, mai tradotto in italiano. Ed entrambi riguardano l’esperienza di due donne malate di cancro al seno, caso paradigmatico perché una delle malattie più strumentalizzate della nostra storia recente. Credo che una piena riappropriazione dei corpi (tutti) e un uso consapevole delle possibilità offerte dalla tecnica (che alle volte sono meno di quelle che si crede) passino da una considerazione di tutti i rapporti di forza/dominazione in cui siamo inserit* e dall’esplorazione delle possibilità di resistenza che in essi dobbiamo trovare.

    Grazie per gli spunti di riflessione 🙂

  3. Marie Therese Taylor ha detto:

    Meraviglioso blog! In tema di femminilità vorrei proporre il mio e-book “Noi ancora una volta”, dedicato all’amicizia femminile che attraversa i decenni e i periodi cruciali della storia italiana. Qui potete scaricare un estratto gratuito http://www.scrittorevincente.com/noi-ancora-una-volta/.

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